martedì 23 agosto 2011

"Io, studente di ingegneria nell'inferno dei braccianti"

ARTICOLO DA LA STAMPA di Torino

Ivan, 26 anni dal Camerun, studia al Politecnico:
ma lotta contro i «caporali»

NICCOLÒ ZANCAN

TORINO
L’ inizio è Roberto Baggio. «Nel 1990 guardavo i mondiali in televisione. Avevo 5 anni, tifavo Juve e sognavo l’Italia. Volevo andare a vivere nella città dove giocava il mio calciatore preferito». Ivan Sagnet c’è riuscito, anche se poi la vita è sempre più complicata di così. Da Baggio, al Politecnico di Torino, a un campo di pomodori nel Salento agli ordini di un caporale ghanese: «Ho capito che sono stato un privilegiato. Non sapevo di questa Italia. Nei campi della Puglia ho ritrovato l’Africa. Le persone trattate come schiavi, macchine da lavoro senza diritti».

Questa è la storia di Ivan Sagnet, 26 anni, camerunese di Duala. In due ore cita Bettino Craxi e Enrico Mattei. I nuovi idoli della sua vita: «L’egiziano El Baradei, Barack Obama e Nelson Mandela». Ti racconta della grande cultura di suo zio poliziotto, delle sere passate insieme ad ascoltare alla radio le notizie del mondo: «È lui che mi ha cresciuto. Ed è grazie alla mia famiglia se ho potuto studiare qui». Si imbarazza un po’ sul tema fidanzate: «Ho avuto solo storie che non sono durate». E poi ti racconta questa estate pazzesca, che gli ha cambiato la vita per sempre: «Voglio continuare la battaglia per i diritti dei braccianti fino alla fine. Adesso non ho più paura».

A Ivan Sagnet mancano tre esami per laurearsi in Ingegneria informatica. Per conquistarsi l’iscrizione ha studiato prima l’italiano. Per mantenersi fa il cassiere part-time in un supermercato. Ma ultimamente non l’hanno più chiamato. Aveva bisogno di soldi per pagarsi l’affitto. Per questo ha accettato l’invito di un amico: andare insieme a fare la stagione dei pomodori a Nardò. «Il giorno in cui ho stabilito il mio record sono riuscito a riempire sei cassoni di ciliegini - racconta - sempre in piedi: dalle 3 del mattino alle 5 del pomeriggio. Il caporale mi urlava dietro: “Muoviti, raccogli tutto, domani non ti chiamo più!”. Ogni cassone da 350 chili mi è stato pagato 3,50 euro. Totale 21 euro. Ma devi dare 8,50 al caporale per il trasporto nei campi e per un panino alla frittata. Quindi, per 15 ore di lavoro ho preso 12 euro e 50 centesimi: meno di 1 euro all’ora».

Al quarto giorno di lavoro un uomo tunisino è morto d’infarto: «L’ho visto sotto un telo, quando i medici erano già andati via». Ivan Sagnet ci ha provato, si è guardato intorno, prima stupefatto, poi sempre più indignato. Fino a quando ha deciso di organizzare il primo sciopero della categoria. «A un certo punto i caporali ci hanno chiesto un doppio lavoro. Avremmo dovuto scegliere i pomodori più belli. Era troppo: strappare la pianta, scrollarla e riempire il cassone dopo la selezione. Abbiamo chiesto 7 euro. Sono arrivati ad offrircene 4,50 a cassone. Ci siamo rifiutati».

Braccia incrociate. Prima hanno aderito i dieci compagni della sua squadra. Poi altri 40. Infine il 70 per cento dei 400 lavoratori stagionali di Nardò. Un successo che ha attirato l’attenzione della politica e dei sindacati, ma che di fatto ha bloccato i guadagni per tutto il comparto. A Ivan Sagnet sono iniziate ad arrivare minacce sempre più pesanti: «Prima dai caporali - spiega - poi anche da una parte dei raccoglitori. Li capisco: molti sono tunisini appena sbarcati a Lampedusa, disposti a lavorare anche per 2 euro e 50 a cassone».

Lo sciopero dei braccianti di Nardò ha prodotto razioni diverse: «Mi hanno detto di lasciar perdere - spiega Sagnet - tanto il mondo è sempre andato così, non cambierà». E invece la protesta sta iniziando, lentamente, a cambiare le cose.

Ora un bus comunale porta i braccianti al lavoro, togliendo il guadagno ai caporali. Si sta cercando di rendere trasparente la lista di prenotazione attraverso il centro di collocamento. Ma soprattutto è allo studio una proposta di legge per convertire il caporalato in reato penale, mentre oggi è punito con una multa da 50 euro. «Il giorno che arresteranno un caporale - dice Ivan Sagnet - sarà il più bel giorno della mia vita. Mi aspettavo di più dal nostro sciopero».

Ha le basette scolpite. Gli occhiali da sole giganti come quelli di Balotelli. Un borsello a tracolla tipico di certi giocatori di calcio. È un ragazzo in cammino: «Il mio sogno adesso è la carriera diplomatica. La storia di Nardò mi sta insegnando molte cose. È bello fare qualcosa per gli altri». Mentre parliamo, seduti su una panchina, riceve due telefonate. Una è di un bracciante che gli urla in francese: «Torna giù, abbiamo bisogno di te». L’altra è di una signora della Caritas di Nardò: «Sono molto dispiaciuta per quello che è successo - gli dice - volevo esprimerti tutta la mia solidarietà. Fatti vedere, parliamo».

È successo che dopo le ultime minacce Ivan Sagnet è tornato a Torino. «La situazione era diventata tesa. Un caporale è venuto a dirmi: “Ti uccido con le mie mani”. Per fortuna è intervenuta la polizia, gli agenti sono stati molto bravi con me».

Intanto nei campi di Nardò molte angurie sono andate in disgrazia. E qualcuno accusa il ragazzo venuto dal Camerun anche di questo: «Lo so cosa dicono. Che c’è la crisi. E che scioperare non ha fatto altro che peggiorare le cose. Ma non è vero: la crisi delle angurie non c’entra con i pomodori. Abbiamo fatto i conti in tasca ai caporali». Eccoli: «Ogni cassone gli viene pagato 15 euro. Un camion tiene 88 cassoni. Ogni giorno vengono caricati 4 camion. Quindi il caporale incassa più di 5 mila euro al giorno. Non è un problema di crisi, ma di rispetto dei lavoratori».

Adesso Ivan Sagnet sta per salire su un treno per Lecce. In Puglia hanno organizzato concerti e manifestazioni di solidarietà. Vuole esserci. Il bambino che amava Baggio, il ragazzo che studia Ingegneria, è diventato un uomo.

martedì 9 agosto 2011

EMERGENZA NORD AFRICA

«Il mio pensiero va anche alla Libia, dove la forza delle armi non ha risolto la situazione. Esorto gli Organismi internazionali e quanti hanno responsabilità politiche e militari a rilanciare con convinzione e risolutezza la ricerca di un piano di pace per il Paese, attraverso il negoziato ed il dialogo costruttivo». Così Benedetto XVI durante l’Angelus di ieri, domenica 7 agosto. Alle parole del Santo Padre fanno eco quelle di mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di Tripoli: «Tutti devono accogliere l’appello del Papa alla conciliazione, dai politici ai vertici della Nato, a qualsiasi istituzione che possa avere l’autorevolezza di essere accettata dalle parti in causa. Siamo nel mese di Ramadan e questo può facilitare a tutti la consapevolezza che le armi non sono la soluzione». In Libia viveri e benzina scarseggiano. A Tripoli comincia a mancare l’elettricità e diventa dunque difficile conservare i viveri che ci sono, soprattutto adesso che è estate. Di conseguenza, i prezzi subiscono notevoli aumenti. Va avanti comunque il lavoro della Chiesa locale grazie soprattutto alle religiose rimaste nel Paese. A Bengasi sono presenti suore e operatori pastorali, ma restano difficili i contatti e le comunicazioni. Intanto proseguono incessanti le attività umanitarie – soprattutto quelle di prima emergenza – delle Caritas locali nelle aree di crisi in Nord Africa e in Medio Oriente. Attività che si sono ulteriormente sviluppate e organizzate, sia all’interno dei singoli Paesi sia nei punti di confine, in particolare tra Libia e Tunisia e tra Libia ed Egitto. In tali contesti, grazie al lavoro di operatori umanitari, competenti anche dal punto di vista legale (tutela dei diritti, inoltro delle pratiche per l’ottenimento dello status di rifugiati, ecc.), la Caritas opera da mesi seguendo centinaia di persone originarie soprattutto dell’Asia e dell’Africa sub-sahariana. A metà luglio si è svolta una missione di Caritas Italiana in Tunisia per monitorare la situazione dei profughi, coordinare e rilanciare, con la Caritas locale, gli interventi. In particolare sono stati rafforzati i progetti di accompagnamento e di aiuto ai profughi sub-sahariani nel campo profughi di Shousha presso Ben Garden, e in altre località. Al confine tunisino lo staff Caritas offre un servizio di informazione e aiuto per il rimpatrio e la cura dei casi più vulnerabili. Caritas Tunisia ha potenziato la distribuzione di medicine e prodotti igienici che finora ha riguardato più di tremila persone. Al confine egiziano la Caritas, in coordinamento con le autorità, distribuisce viveri e acqua a più di 2.000 persone al giorno. Al confine con il Niger viene assicurata assistenza a circa 4.000 persone. Caritas Italiana è in costante contatto con tutte le Caritas del Medio Oriente e Nord Africa, monitora i bisogni della popolazione e fornisce costante supporto e aiuti concreti.

lunedì 8 agosto 2011

"Le ore che passano lente, sul bordo di una piscina che non c'è più..."

di Danilo Feliciangeli, operatore Caritas Italiana a Lampedusa
La “base Loran”: che nome esotico. Chissà cosa pensavano i giovani marines americani, che negli anni Ottanta venivano assegnati a presidiare questa piccola base radio, su questo scoglio in mezzo al Mediterraneo.
I lampedusani ancora li ricordano, gli americani, come una presenza allegra, non ingombrante… «È vero, erano i padroni dell’isola» dice qualcuno «ma mettevano allegria quando giravano in gruppo per il paese un po’ alticci, ridendo e cantando canzoni in inglese!».
Molti ancora ricordano la piscina interna alla base Loran, dove gli americani avevano trasportato la sabbia dalla Spiaggia dei Conigli per fare il campo da beach volley. Oggi non puoi spostare nemmeno una pietra su quella spiaggia, ormai diventata oasi protetta. Chissà quante uova di tartaruga Caretta Caretta saranno finite schiacciate sotto i piedi di ragazzotti americani che giocavano a beach volley... Ora siamo seduti sul bordo di quella piscina, io e Abedì, o meglio su quello che era il bordo di quella piscina.
Alle base Loran gli americani non ci sono più, ora ci sono gli africani, “i turchi”, come li chiamano i lampedusani (… quanti popoli sono passati per questa isola…). La base Loran ospita oggi circa 150 “minori stranieri non accompagnati”, ragazzi tra i 14 e i 17 anni arrivati qui dal mare, a bordo dei barconi che salpano quasi ogni giorno dalla Libia. Non sono come i turchi, che venivano per depredare, non sono come gli americani, che si sentivano i padroni dell’isola, sono gli ultimi degli ultimi, giovani ghanesi, maliani, nigeriani, bangladesi, che vivevano da immigrati in Libia, senza genitori, scappati dal loro Paese per la fame o per le violenze. Come Abedì.
Abedì ha interrotto la solita partitella a pallone sopra la piscina, ormai ricoperta di cemento e trasformata in cortile (la chiamano campetto da calcio, ma non ha nemmeno le porte), per unirsi a noi in preghiera. Oggi alla Base Loran c’è un gruppo di giovani italiani, della comunità di Sant’Egidio, che organizzano un momento di preghiera per questi ragazzi accolti alla base Loran. Stiamo lì seduti in raccoglimento, uno di fianco all’altro, ascoltiamo i passi del Vangelo, ascoltiamo le parole del parroco di Lampedusa, Abedì tiene le mani giunte, è veramente assorto.
Al termine della preghiera scambiamo due parole. Quando gli dico che sono italiano, con gratitudine mi dice: «Gli italiani sono brave persone!». Io mi guardo intorno, e ripenso alle condizioni in cui gli italiani tengono questi ragazzi da settimane: se eravamo cattive persone cosa gli facevamo?!
Così, per ricambiare il complimento, gli dico con entusiasmo: «Be', anche i ghanesi sono brave persone!” e lui mi inizia a raccontare di come i ghanesi gli hanno ucciso i genitori. Prima il padre, in piazza durante degli scontri, nemmeno sapeva perché, forse una protesta, ma chissà contro cosa. Poi la madre, in casa, prima violentata e poi uccisa davanti ai suoi occhi da un gruppo di balordi.
No, secondo Abedì i ghanesi non sono brave persone. Ho fatto una gaffe terribile. Mi racconta che lui in Ghana non vuole più tornare, che non ne vuole più sapere del Ghana, che non gli importa più nemmeno del suo idolo, Abedì Pelè, il campione di calcio di cui porta il nome. Come dargli torto?
Abedì a 16 anni ha già visto morire ammazzati i suoi genitori, è partito con dei coetanei verso il deserto, lo ha attraversato non si sa come (o almeno non vuole dirmelo), è finito in Libia dove aveva un cugino, ha lavorato come garzone in un banco al mercato di Tripoli e ha dormito in strada di notte per più di un anno, cercando di sfuggire alla polizia libica.
Poi le bombe, la guerra, le bande per strada che andavano a caccia di “neri” e il sogno dell’Europa, la traversata in mare ed ora è qui, seduto sul bordo di una piscina che non c’è più, in una base americana che non c’è più, su un’isola che chiamano la porta d’Europa, di un'Europa che non c’è più o che forse non c’è mai stata.
Forse Abedì merita di più di questo. Forse merita di più di essere accolto in questo posto ormai fatiscente, con le pareti scrostate, i materassi in terra, il mobilio scadente, un solo piccolo televisore mezzo rotto che trasmette solo canali italiani, e dove tutto il giorno passa le sue giornate senza far nulla, come gli altri ragazzi, poco più che bambini, che condividono con lui la stessa storia.
Chissà cosa avrà pensato durante la preghiera Abedì, chissà cosa avrà chiesto al suo Dio. Forse avrà ringraziato per averlo fatto arrivare sano e salvo in Italia, o forse si sarà disperato e avrà chiesto perché sia dovuto nascere in Ghana invece che in Italia.

martedì 2 agosto 2011

Fortress Europe: Alla mia mamma

Fortress Europe: Alla mia mamma: "Riceviamo e pubblichiamo questa lettera da Lampedusa. A scrivere è un ragazzino di 14 anni. Si chiama Said Islam Yacoub, è nato in Camerun i..."

Un progetto di comunicazione per la Caritas di Senigallia nell’anno europeo del volontariato 2011


Sono circa 100 milioni gli europei che dedicano parte del loro tempo al volontariato e quest'anno l'Europa ha deciso di rivolgere a questa preziosa risorsa un'attenzione speciale. Con il 2011 si è aperto "l'Anno europeo del volontariato", con l'obiettivo di aumentare la consapevolezza sull'importanza di fare qualcosa per gli altri. La Caritas diocesana di Senigallia non poteva lasciarsi sfuggire questa preziosa occasione per dire che fare volontariato è qualcosa di bello, migliora se stessi, il luogo in cui si vive, il proprio paese. Addirittura il mondo.

UN PIANO, TANTI LINGUAGGI

MASS MEDIA Nel pensare ad una strategia di comunicazione che lanci il volontariato ed in seconda battuta le proprie strutture, si è anzitutto valutato quanto già presente nel territorio, specialmente nell’ambito diocesano.
Volti di volontari: ogni quindici giorni il settimanale diocesano ‘La Voce Misena’ ospita un profilo di volontari. Biografia, storia personale, scelte, motivazioni ed ambito di servizio. Lo stesso profilo si inserisce nella trasmissione settimanale radiofonica (già in onda), curata dalla Caritas diocesana, su Radio Duomo inBlu.
Buone notizie: raccolta di notizie ed eventi che parlano di buone pratiche, curate dal volontariato. La notizia è la buona notizia. Proposta di rubrica quindicinale per i giornali on line del nostro territorio.
Volonclick: creazione di banner che pubblicizzano il volontariato. Da far circolare nei siti informativi, istituzionali, portali, ecc. Proposta alla consulta del volontariato cittadina.

CARTA CANTA Nel pensare ad una strategia di comunicazione che lanci il volontariato ed in seconda battuta il servizio Caritas, è importante recuperare modalità ‘classiche’ di comunicazione, da molti ritenute superate dal web 2.0, ma che hanno ancora qualcosa di importante da dire.
AgendaCaritas: sulla falsariga di un maneggevole ‘Moleskine’ uno strumento con frasi, appuntamenti, idee dedicate al volontariato, alla vita Caritas, a progetti ed altre iniziative.
Luoghi volontari è invece una semplice brochure sul volontariato di ispirazione cattolica presente nel territorio diocesano senigalliese.
Manifestiamoci:
in tempi particolari o in occasioni ‘speciali’ campagne di affissione in città per creare opinione e gettare il sasso nello stagno.

VIDEO Immagini, suoni e parole per raccontare il volontariato. Anche grazie a strumenti tecnologici di larga diffusione, l’invito a guardare il mondo vicino con altri punti di vista, più colorati e costruttivi.
Spot: in appena 60 secondi, il valore della gratuità, il mettersi nel panni degli altri, avere voglia di vivere in una città più a misura di tutti. Un video da far circolare nelle sale cinematografiche, youtube, siti internet, pub, luoghi di aggregazione, supermercati… http://www.caritassenigallia.it/wp/video2.html
Videodoc: un cortometraggio che racconti la realtà Caritas. Pensato soprattutto per un pubblico giovane, può essere usato in occasioni formative, convegni, congressi, stand, fiere… http://www.caritassenigallia.it/wp/video.html
Cortofonino: un concorso di video realizzati con il telefonino sul tema del ‘volontariato’. Lancio e promozione in collaborazione con le scuole, oratori, parrocchie, centri di aggregazione giovanile.

EVENTI Proposte un po’ fuori dal seminato che facciano circolare idee, creino aggregazione, ridestino il gusto dello stare insieme in proposte signficative, leggere e profonde.
Arte, fotografia, libri cinema e sport: tutto quanto parla all’anima. Public art, concorso fotografico, rassegne cinematografiche, incontri con autori e registi. In collaborazione con la libreria ‘Io book’, la biblioteca comunale ‘Antonelliana’ e la fondazione ‘Gabbiano’.
Sport: intorno ad una palla, per dire quanto è bello e gioioso essere volontari. In collaborazione con il Csi di Senigallia e l’amministrazione comunale. Coinvolte anche le associazioni sportive del territorio.
Serata evento: in una fresca sera d’estate, incontro con un cantante significativo della scena musicale italiana. Qualcuno che abbia qualcosa di interessante da dire.

VARIE ED EVENTUALI Stimoli e riflessioni nel cammino diocesano della Chiesa di Senigallia. Corso di formazione per volontari, proposte in sinergia con la Consulta del Volontariato di Senigallia.

1 agosto 2011 - Tragedia a Lampedusa: 25 immigrati trovati morti a bordo di un barcone. ⇒ Leggi la testimonianza dell'operatore di Caritas Italiana a

di Danilo Feliciangeli, operatore Caritas Italiana a Lampedusa
Sono le 4 passate quando mi metto a letto. È stata una nottataccia. La chiamata dalla Capitaneria di porto arriva verso l'una di notte: sono circa 300, tra mezz'ora gungeranno a Lampedusa, al molo commerciale, scortati dalle motovedette. Un altro soccorso in mare aperto, un nuovo arrivo a Lampedusa, la porta d'Europa.
Erano due settimane che non si verificavano sbarchi, un periodo lunghissimo per i numeri degli ultimi mesi, l'isola se ne era quasi dimenticata: tra rassegne cinematografiche, mare stupendo e ristorantini sembra un posto di villeggiatura come tanti altri in questa strana estate. Ma Lampedusa non è mai stato un posto come tanti altri, è nel mezzo del Mediterraneo, tra due continenti così diversi tra loro.
Anche al molo, poco prima dello sbarco, sembra una serata come le tante che l'hanno preceduta, la solita organizzazione, la polizia che controlla in forze, schiere di medici e paramedici pronti in banchina, operatori umanitari, autobus pronti a trasferire i migranti al Centro di accoglienza senza che nessuno se ne accorga. Pochi curiosi cercano di partecipare da lontano, qualcuno con una macchina fotografica tenta di rubare qualche scatto da mostrare agli amici insieme alla spiaggia dei conigli... La solita routine della macchina dei soccorsi.
Poi arriva la notizia, pesante: sembra ci siano cadaveri a bordo del barcone, tra i 5 e 10. Anche questa barca era in avaria, intercettata a circa 35 miglia da Lampedusa. Era partita dalla Libia, 4 giorni fa, sembra.
I migranti sono stati trasferiti un po’ per volta a bordo delle motovedette, ed arrivano al molo scaglionati. Anche i volti sono gli stessi, sono stanchi, alcuni stremati, c'è chi sviene dopo aver toccato terra. Ci sono bambini, famiglie, sono subsahariani, ma anche nordafricani, forse libici. Ci sono anche pakistani, forse qualcuno dal Bangladesh. Tutti migranti che vivevano in Libia da tempo, scappati a causa della guerra. Li guardo in faccia, cerco di incrociare i loro sguardi, di fargli un sorriso...
Intanto sul molo la tensione cresce, tra le forze dell'ordine, la Protezione civile e la Capitaneria di porto. Arriva anche il medico responsabile del presidio sanitario dell'isola, segno evidente che i cadaveri ci sono. Si cerca di saperne di più dai migranti che sbarcano. Quei pochi in condizioni di parlare confermano: i morti ci sono, nella stiva, ma non sanno quanti sono e perché siano morti. Dicono che già mandano cattivo odore, sono morti poco dopo la partenza.
Il barcone della morte, la bara, arriva in rada scortata da due motovedette. Si trasbordano gli ultimi migranti proprio di fronte a noi, assisto alle operazioni da lontano. Dopo pochi minuti si sente forte e deciso il grido “liberi”, segno che a bordo non c'è più nessuno da salvare, le motovedette possono staccarsi dalla barca soccorsa. Ma in questo caso non la lasciano alla deriva, la rimorchiano fino al molo Favorolo, con il suo carico drammatico...
Torno a casa con una profonda angoscia. Non so quanti sono, ma so che questa volta sono morti in parecchi. Mentre mi addormento si sentono in lontananza ancora le sirene... Mi chiedo perché; per i morti non c'è urgenza, forse ci sarà qualche sopravvissuto.
Questa mattina appena sveglio cerco notizie. È andata peggio di quello che sembrava. La stiva del barcone era carica di 25 persone morte asfissiate. Le avevano stipate lì sotto, da una botola di 50 cm di apertura, vicino ai motori. Dopo poche ore l'aria sarà diventata irrespirabile. Non sono riusciti ad uscire, il barcone era troppo pieno, non c'era posto per loro, dovevano morire, di una morte atroce, in viaggio verso l'Europa.

"Una nuova vita"

di Danilo Feliciangeli, operatore Caritas Italiana a Lampedusa
Probabilmente Ahmed (nome di fantasia) non avrebbe mai immaginato cosa sarebbe successo di lui e del suo Paese di lì a poco.
Era una persona importante in Tunisia, nella “sua” Zarzis, una persona stimata e forse temuta: lavorava per la “protezione civile”, una sorta di guardia nazionale, i fedelissimi del presidente dittatore Ben Alì. Era anche membro del “partito”, un rappresentante locale di rilevo, lui, giovane poco più che trentenne.
In realtà Ahmed dimostra più anni di quelli che ha; deve essere stata una vita intensa la sua, che ha segnato il suo volto olivastro, il suo naso storto, forse ricordo di qualche pugno ricevuto.
Ahmed era un uomo importante, quindi, un giovane brillante, che parla arabo, inglese, francese, italiano ed un po’ di tedesco… Ma all’improvviso il suo mondo è cambiato, il suo futuro brillante si è dissolto nel nulla, come il profumo dei gelsomini, che ha inebriato questa primavera araba.
In quel caos delle settimane della rivolta tunisina, dopo la caduta di Ben Alì, il suo destino è stato segnato: mentre il popolo tunisino gioiva per la fine di un incubo c’era chi, come lui, stava perdendo tutto, chi si vedeva costretto a scappare, per paura della rivoluzione, delle rappresaglie e forse delle vendette.
Così alla prima occasione si è imbarcato verso l’Italia: era il 21 gennaio. Ed è stato uno dei primi ad arrivare a Lampedusa.
Ahmed potrebbe essere la risposta a molte nostre domande. Gli italiani in quei giorni si sono chiesti perché i tunisini scappassero dal loro Paese proprio quando era arrivata la rivoluzione… Forse i primi che sono arrivati non la volevano la rivoluzione, forse scappavano proprio da quella rivoluzione.
E quando sono arrivati la voce si è sparsa: «È stato facile, nessuno più controlla, le porte dell’Europa sono aperte!». E così molti altri sono seguiti, molti giovani dopo aver cambiato il loro Paese si sono concessi una vacanza in Europa, alla ricerca di quella libertà che non avevano mai avuto.
Ahmed ha vissuto a Lampedusa per sei mesi, ha cercato di integrarsi, è stato ospitato da lampedusani, è stato accolto in parrocchia, è stato aiutato dalla Caritas, ha fatto piccoli lavori, per passare il tempo, più che per il bisogno di soldi.
E adesso la sua domanda di protezione internazionale è stata accolta, adesso è libero di girare l’Italia e di costruirsi una nuova vita.
Le cose per lui non sono andate come immaginava, non voleva venire in Italia, non voleva rubare il lavoro agli italiani, non voleva spacciare nei pressi della stazione centrale, non voleva andare nelle banlieue francesi, voleva costruirsi la vita nel suo Paese.
Ma la storia è cambiata, ed ora è in Italia.

Lampedusa. Nell'emergenza, la riscoperta della propria identità e l'organizzazione della solidarietà

di Paola Ortensi, associazione La Lucerna
I cinquanta giorni dell’emergenza e la prima organizzazione della solidarietà
Nel febbraio 2011 Lampedusa sale alla ribalta delle cronache di giornali e telegiornali. Un’emergenza annunciata scoppia e sembra trovare tutti impreparati. Migliaia di profughi, immigrati, traversano il canale di mare che separa l’Africa dall’Europa, dall’Italia. Sono tunisini, marocchini e gente proveniente da Paesi del centro Africa. Affrontano un mare spesso in tempesta, molti non ce la faranno perché le imbarcazioni nelle quali vengono caricati sono state definite “carrette del mare”. E per molti di loro, che si sono affidati agli scafisti, il viaggio di speranza diventa un viaggio senza ritorno. Il Mare Mediterraneo diventerà la loro tomba.

In poco tempo la piccola isola, di soli 5.000 abitanti, vede la popolazione più che raddoppiata. Un insieme di volti chiari, scuri, gente che parla lingue diverse. In 50 lunghi giorni approdano sulle sue coste oltre 6.000 persone e inizia l’emergenza. Il Centro di accoglienza è chiuso da due anni, il Governo è assente. La popolazione è sola ad affrontare la situazione. Le cronache dei giornali e delle televisioni si riempiono di notizie allarmanti; l’isola vede gente ammassata nel porto, su una collina vicina, che viene chiamata “collina della vergogna”. E la gente che approda ha bisogno di tutto: acqua, cibo, coperte, vestiario, cure mediche… E tutti si danno da fare, svuotano frigo e danno fondo alle provviste, portano le coperte che hanno, conducono con sé, a casa, i piccoli, più fragili, per lavarli dopo giorni di traversata difficile, curarne le ferite e le piaghe che la permanenza in barca ha procurato, dare loro da bere e da mangiare e li riportano poi alle loro mamme. I commercianti offrono merce, quello che hanno. Ma i giorni passano e la solitudine della popolazione aumenta.

E i lampedusani si stringono attorno a loro e si prestano con generosità, riscoprendo identità e valori forse sopiti; e, in particolare, l’identità di gente di una piccolissima isola all’estremo Sud dell’Italia e dell’Europa, più vicina geograficamente alla Tunisia. Isola lontana dal pensiero e dalle preoccupazioni dell’Italia. La gente di Lampedusa e di Linosa – altra piccola isola che fa parte dello stesso comune e partecipa all’emergenza con piccole forme di accoglienza temporanea, dato il numero degli abitanti, appena 300 – è gente di mare, pescatori, abituati a dare soccorso a chiunque in mare si trovi in difficoltà e in pericolo di vita. Gente che ha vissuto il dramma dell’emigrazione forzata per cercare lavoro; che sa le sofferenze di chi parte e lascia famiglia, affetti, patria e tutto il resto per trovare una soluzione alla fame e alla mancanza di lavoro per sé e per la famiglia.

I valori di solidarietà, che si manifestano in questa occasione, hanno bisogno di trovare un punto di organizzazione, di aggregazione, che non faccia rischiare di perdere il bello che si sta costruendo. La comunità parrocchiale si organizza, offre spazi, mette insieme gruppi di volontari, fa appelli alle Chiese sorelle d’Italia perché vengano in loro soccorso. Nei 50 giorni dell’emergenza, come riconosciuto da tanti, anche da coloro che non fanno parte della comunità ecclesiale, è la gente, organizzata dal parroco, don Stefano Nastasi, che con il Consiglio pastorale parrocchiale e con la Caritas parrocchiale, si fa prossimo e non lascia soli i profughi, senza dimenticare la gente dell’isola, allo stremo delle forze per l’impegno prodigato e la solitudine vissuta.
Visita a Lampedusa

Una piccola delegazione de La Lucerna, laboratorio Interculturale, impegnata da 10 anni con persone immigrate, rifugiate, richiedenti asilo, alla quale si è affiancata una missionaria scalabriniana, ha deciso di trascorrere una settimana nelle due isole. La visita aveva lo scopo di “ascoltare”, conoscere la situazione, rendersi conto di ciò che era accaduto nei primi giorni dell’anno e di cui ancora si sente parlare, in modo sommesso e quasi nascosto nelle cronache correnti. Siamo arrivate in quattro a fine giugno.

Gli incontri, tutti di una grande significatività, ci hanno fatto scoprire la ricchezza della gente, la disponibilità a “perdere tempo” con noi per dirci come hanno vissuto quei momenti e quali conseguenze tutto ciò sta avendo su di loro. Abbiamo incontrato il parroco, membri del Consiglio pastorale e della Caritas, gestori di bar e residence, commercianti; abbiamo parlato con le persone di un gruppo di volontariato, Askavusa, che da tre anni organizza nell’isola l’evento interculturale e artistico “Lampedusainfestival” e si sta battendo per realizzare nell’isola un Museo dell’Immigrazione, dove raccogliere i materiali che il mare riporta a riva o ciò che si trova nei relitti delle barche degli immigrati: Corani, vestiti, pentole, lampade, ancore, pezzi di legno, scarpe, foto, lettere…
Attraverso di loro avvengono altri incontri, con il falegname – artista che dal legno delle barche ha ricavato delle croci, donate al vescovo, al parroco, portata al Papa; con artisti di strada, che lavorano la pietra dura, l’argento, il filo per farne lavoretti di macramè. A Linosa siamo stati accolti nel prefabbricato di Francesca, Claudia e Giuseppe, centro di immersione e di pesca subacquea. A tutti e tutte siamo debitrici di una accoglienza senza riserve, generosa, e pronta a donarci qualcosa di loro, del loro amore per queste isole, dalla natura incontaminata.

Siamo andate alla porta d’Europa, che però giace in stato di abbandono. Abbiamo visitato il piccolo cimitero dell’isola di Lampedusa dove una piccola parte è dedicata ai profughi senza nome e dove persone pietose hanno portato dei fiori accanto alla croce. In alcune tombe senza nome c’è un numero, forse unico elemento di identificazione di uno degli emigrati morti e di cui forse la famiglia lontana non sa dove si trovino le spoglie.

Tutto nella visita ha avuto un senso. Specie gli incontri e la relazione con le persone. Abbiamo visto pochi immigrati, perché ormai la “macchina organizzativa” del Governo funziona, al punto che le persone che sbarcano sono diventate “invisibili”. Non si sa quando arrivano, ma lo si percepisce dal rumore degli elicotteri e dalle sirene con le ambulanze, che indicano che qualcosa è avvenuto o sta avvenendo. Poi, allo sbarco, gli organismi a ciò preposti, come Cri, Medici Senza Frontiere, Protezione civile… provvedono all’avvio della gente in ambulanze al Pronto soccorso o ai due Centri di accoglienza dell’isola, da dove il giorno successivo verranno inviati ad altre destinazioni dei Centri d’Italia.

L’aspetto triste della vicenda di queste due isole è che l’emergenza vissuta al riflettore delle cronache e nella solitudine in cui sono stati lasciati dalle istituzioni, ha fatto crollare il turismo, risorsa principale del luogo. La crisi si fa già sentire pesante a inizio luglio e si teme che possa avere conseguenze ancora più disastrose nelle prossime stagioni e in futuro. E a tutto ciò si aggiunge forse la contraddizione di avere vissuto 50 giorni insieme con i profughi e ora non sapere più niente di loro, non vederli più, non sapere dove sono andati i primi e dove sono destinati gli ultimi arrivati. Ci si percepisce come usati e strumentalizzati per qualche disegno più grande di loro, incomprensibile. Tuttavia la gente è pronta a reagire.
Un ponte tra passato e futuro. Lampedusa “capitale dell’Amore”

Il parroco ci dice che ciò che ovunque è normalità, diventa qui straordinarietà, come l’arrivo di un quotidiano o il rifornimento di frutta e verdura quando il mare è grosso. E in questa situazione di straordinarietà è avvenuta l’emergenza. È necessario andare a Lampedusa e Linosa per rendersene conto. La natura è molto bella e incontaminata, le cale si aprono sul mare di un blu intenso; si vedono poche vestigia di opere murarie di tempi antichi, che andrebbero valorizzate…
E la gente, che ha vissuto la contraddizione dell’emergenza per 50 giorni, non si deve pentire di essere stata solidale. E il patrimonio culturale dell’isola non dovrà andare disperso. È questo forse l’impegno principale che la comunità parrocchiale avrà da affrontare. Da un lato non fare perdere la memoria della significatività di ciò che hanno vissuto, dall’altro ricostruirsi come comunità a partire dal quotidiano. Si tratta di creare un ponte tra i valori del passato, legati strettamente alla cultura del paese, e i valori su cui puntare per una realtà diversa, un modello di solidarietà da diffondere anche ad altre realtà italiane.
La comunità parrocchiale, impegnata in prima linea nell’organizzare la solidarietà nell’emergenza, ha saputo, in questa occasione, legare la vita di fede – con momenti di preghiera e celebrazione dei sacramenti e di ascolto della Parola – con la quotidianità e con lo stimolo alle istituzioni a dare segni di presenza. Inoltre si è impegnata nel cercare di attivare altre presenze di volontariato per ridare vitalità alla gente e stimolarla a rendersi protagonista, nel valorizzare le opere antiche del luogo, i luoghi naturali, il turismo non più di massa, ma intelligente e responsabile, attento all’arte, alla cultura, alla natura delle isole.
E in questo impegno si aggiunge la presenza significativa del vescovo di Agrigento, mons. Franco Montenegro. Sembrano significative alcune frasi dell’Omelia del vescovo, che non ha lasciato sole le popolazioni di Lampedusa e di Linosa nei giorni dell’emergenza. Egli ha voluto trascorrere in questi luoghi tre giorni, dalla veglia pasquale al Lunedì dell’Angelo. Nella veglia egli ha detto, tra l’altro: «Nella nostra famiglia in questo momento, sono gli abitanti di Lampedusa ad avere bisogno di tutta la nostra vicinanza e il nostro affetto… Per noi la Pasqua ha un significato, non è un ricordo…».
Durante la celebrazione dell’Eucaristia ha mostrato ai fedeli raccolti in preghiera il suo “bastone pastorale”; non è di argento o di oro, ma di legno, e ha detto: «Questo è il pastorale che mi avete regalato e lo porto con me. È fatto con il legno delle barche degli immigrati». Un artista dell’isola, Franco Tuccio, lo ha preparato per lui e insieme con il parroco glielo hanno voluto donare in segno di riconoscenza per la sua vicinanza con loro.
E aggiunge ancora: «Voi state costruendo un mondo diverso con l’amore. Se la Pasqua è il volto di un mondo nuovo devo dirvi Buon Anno. È l’anno nuovo che voi avete fatto nascere. Lampedusa è diventata capitale dell’amore. In un mondo che rischia di diventare disumano, voi avete fatto questo».

UNA SOLA FAMIGLIA, LA SPERANZA OLTRE LA CRISI - di don Vittorio Nozza

Il Rapporto annuale Istat (presentato a Roma il 23 maggio) mostra che l’Italia ha pagato, a causa della recessione, un

prezzo elevato in termini di produzione e disoccupazione,ma ne ha anche limitato l’impatto sociale e ha evitato crisi sistemiche analoghe a quelle di altri paesi. La ricchezza di cui dispongono le famiglie, un tessuto produttivo robusto e flessibile, l’ampio ricorso alla cassa integrazione, il rigore nella gestione del bilancio pubblico, le reti di aiuto informale sono gli elementi che spiegano perché la caduta del reddito prodotto, la più forte tra i grandi paesi industrializzati, non si è trasformata in una crisi sociale di ampie dimensioni.

Tuttavia è stato anche detto, alla presentazione del Rapporto, che «il sistema Italia appare vulnerabile, e più vulnerabile di qualche anno fa». È evidente che per fronteggiare le recenti difficoltà economia e società italiane hanno eroso molte delle riserve disponibili. Ad esempio: le famiglie hanno ridotto drasticamente il tasso di risparmio per sostenere il loro tenore di vita; i vincoli di finanza pubblica rendono minimi gli spazi di manovra della politica fiscale; l’economia nazionale mostra evidenti difficoltà nella fase di ripresa,meno sostenuta di quella di paesi a noi vicini come Francia e Germania.

L’oggi in quattro parole Quattro parole, in modo particolare, possono aiutare a cogliere il contesto storico dentro il quale ci troviamo ad affrontare, in Italia, i risvolti sociali dell’attuale crisi economico finanziaria.

1. La vulnerabilità delle persone e delle famiglie. Nel nostro paese sono state perse quasi 900 mila unità di lavoro a tempo pieno. È aumentata l’area dell’inattività. L’occupazione cresce prevalentemente nei servizi a più basso contenuto professionale. Si riduce il numero delle posizioni più qualificate. Ciò implica, a parità di altre condizioni, un sottoutilizzo del capitale umano: guadagni più bassi, minori prospettive di sviluppo. I giovani e le donne hanno pagato in misura più elevata la crisi. Una quota sempre più alta di giovani scivola, non solo nel Mezzogiorno, verso l’inattività prolungata,

vissuta il più delle volte nella famiglia di origine. Oltre il 40% dei giovani stranieri abbandona prematuramente la scuola, alimentando un’area di emarginazione i cui costi non tarderanno a diventare evidenti. Le donne vivono un’inaccettabile esclusione dal mercato del lavoro e spesso sono costrette a uscirne in occasione della nascita dei figli. Gli anziani a loro volta sono investiti da una vulnerabilità crescente. Povertà e deprivazione riguardano spesso le famiglie di ultrase

santacinquenni. Molti anziani con gravi limitazioni non sono aiutati né da reti informali, né dai servizi a pagamento, né dalle strutture pubbliche

2. Il Mezzogiorno. Invece di costituire ed essere ritenuto un’opportunità straordinaria per elevare il tasso di

sviluppo dell’economia italiana, il Mezzogiorno presenta segni crescenti di vulnerabilità economica e sociale. Ciò richiede un’attenzione particolare da parte della politica, del mondo produttivo e della società, così da contenere fenomeni di migrazione interna e conseguente depauperamento del capitale umano disponibile.

3. L’Europa. Nella prospettiva della Strategia Europa 2020, emerge che le vulnerabilità richiamate, unitamente ad alcuni ritardi storici del nostro paese, stanno frenando lo slancio dell’Italia verso gli obiettivi concordati a livello continentale. Progressi conseguiti in alcuni campi appaiono decisamente troppo lenti per un grande paese come il nostro

4. Le azioni di informazione, coscientizzazione ed educazione. In questo contesto e dentro queste vulnerabilità, l’Italia ha bisogno di: prendere coscienza dei propri problemi e dei propri punti di forza, per mobilitare le risorse disponibili e accelerare il passo, in tutti i campi; utilizzare meglio l’informazione, per orientare le decisioni collettive e individuali; dare importanza al “fattore tempo”, abbandonando la ben nota preferenza, nel nostro paese, per decisioni dalle quali ci si attende risultati immediati, rispetto a quelle i cui effetti positivi sono differiti negli anni.

Guardando a mete grandi

A fine maggio si è svolta a Roma la 19ª Assemblea generale di Caritas Internationalis, confederazione di 165 Caritas nazionali tra cui Caritas italiana, che opera a favore di decine di milioni di persone e di poveri nel mondo. Significativo lo slogan scelto: “Una sola famiglia umana: povertà zero”. A partire da questa dichiarazione di intenti, sono stati rilanciati quattro macro-obiettivi. Anzitutto, occorre ridurre il rischio e l’impatto delle crisi umanitarie salvando vite umane, curando chi soffre e aiutandolo a ricostruire comunità e mezzi di sussistenza. In secondo luogo, bisogna trasformare i sistemi e le strutture, rafforzando le capacità e l’influenza degli uomini e delle donne che vivono nelle comunità più povere e svantaggiate, affinché possano influenzare i sistemi, le decisioni e le risorse che li riguardano e avere governi, istituzioni e strutture mondiali giuste. Inoltre, è necessario sradicare la povertà estrema, promuovendo

lo sviluppo umano integrale garantendo l’accesso ai servizi di base (acqua potabile, istruzione, cure mediche e

risorse necessarie per vivere dignitosamente). Infine, è opportuno consolidare le competenze organizzative e il

partenariato mondiale, migliorando le competenze organizzative per essere capaci di affrontare le sfide della

povertà nel mondo. Si tratta di impegni ardui, ma già ampiamente sviluppati dalle Caritas nel mondo. La paura, l’insicurezza, la sfiducia e l’abbandono si vincono infatti solo guardando a mete grandi, ardue ma possibili. Occorrono testimoni di dono e speranza, uomini e donne capaci di pensare in grande e di agire nel piccolo della ferialità, di

osare per una meta bella e alta, di pagare il prezzo anche a livello personale per il conseguimento di un fine che

valga la pena: «Il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (Spe salvi, Benedetto XVI). Tracciare nuove mappe, far emergere opportunità e rischi, valutare progressi e regressi, sostenere con informazioni affidabili la discussione nel paese, a tutti i livelli: è questo il servizio che Caritas italiana e le Caritas

diocesane possono offrire alla comunità nazionale (oltre che su scala più ampia, tramite le aggregazioni continentale e internazionale), convinte che il futuro passa per decisioni difficili ma lungimiranti, da assumere al più presto, a tutti i livelli di responsabilità, sulla base di un quadro informativo ampio e condiviso, da garantire attraverso una costante lettura esperienziale dei bisogni delle persone.

"La vita, le speranze, le star e le pecore..."

Sono molte le storie che si intrecciano e si sovrappongono in questo lembo di terra in mezzo al Mediterraneo che è Lampedusa. Da sempre l’isola è stata punto di approdo di popoli e culture.

I lampedusani stessi sono arrivati sull’isola come “immigrati” o “confinati” e sono partiti e partono come “emigranti”, nei primi del Novecento anche diretti su quelle stesse coste del nord Africa da cui oggi partono in migliaia in cerca di futuro.

Se le ascolti una ad una le storie di Lampedusa si fa veramente fatica a non appassionarsi… Sono storie di lampedusani che amano la loro terra ed il loro mare.
Dal parroco che gira l’Italia senza sosta per raccontare la sua comunità, all'eremita che viveva nel Santuario della Madonna di Porto Salvo accogliendo musulmani e cristiani, dai giovani dell’associazione culturale Askavusa, che vorrebbero fare a Lampedusa il museo dei migranti, per non perdere la memoria, ai volontari di Legambiente, che strappano terre e mari all’abusivismo edilizio per farne riserve protette per bagnanti e tartarughe…
Sono storie di chi produce e vende specialità alimentari tipiche, di chi cerca di realizzare un archivio fotografico storico di Lampedusa, andando a cercare in tutta Europa vecchi marinai, di chi lotta contro il deserto per creare un angolo di paradiso verde in quest’isola disboscata dai Borboni…
Ma queste storie silenziose non fanno rumore, non fanno notizia… Per questo Lampedusa è anche Claudio Baglioni e il suo festival pieno di cantanti famosi, è Angelina Jolie con il suo stuolo di truccatori e guardie del corpo, è il presidente del Consiglio, il presidente del Senato, l’alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, stuoli di delegazioni di parlamentari. Ora tutti vengono a Lampedusa, anche le pecore…

In tutto questo andirivieni di personalità, sono sbarcati a Lampedusa dal Nord Africa 40.000 immigrati e una pecora.
Sono storie pesanti quelle dei migranti che sbarcano sull’isola, che recano in sé una sofferenza che avanza per gradi, per step successivi, muta, ma non si esaurisce.

C’è chi come Shibli arriva da Lampedusa partito dalla Libia, ma non è libico, non è africano, viene dal Bangladesh. Lavorava in Libia prima della guerra, come gommista in un’officina.

Lo incontro sul molo commerciale a Lampedusa appena sbarcato, una notte di fine aprile in cui fa ancora freddo. Ci scambio due parole, parliamo del Bangladesh, gli si illumina il viso quando gli dico che sono stato nel suo Paese, che conosco Dhaka, Kulna… Mi chiede dove si trovi ora: «Siamo in Europa?». Mi chiede se ho uno spazzolino da denti… Sono tre giorni che non li lava…

Cosa c’era nella vita di Shibli prima dell’arrivo a Lampedusa? Quanta sofferenza in Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo? Quanti sacrifici prima di arrivare in Libia dal Bangladesh, quanti sacrifici in Libia, vivere da immigrato in un Paese come quello.
Poi la guerra, le bombe… Chi sa cosa ne pensa lui di Gheddafi, della Nato, della democrazia… Ma forse non ha avuto tempo di pensare, morire in Libia per le bombe o in mare non fa molta differenza… Via, si parte di nuovo, verso l’Europa.

40, 50 ore di navigazione. Erano più di 700 quella notte a bordo di un vecchio peschereccio, stipati come sardine, senza servizi igienici, con scafisti che guidano le barche leggendo un manuale d’istruzioni. Ma quei 700 ce l’hanno fatta, sono arrivati vivi a Lampedusa, non aumenteranno la conta dei 1500 morti in mare dall’inizio dell’anno. Uno ogni 11 persone partite!

Ed ora sei in Europa, Shibli, o meglio, sei in Italia, o meglio, sei a Lampedusa… la porta d’Europa, non l’Europa, sei sulla soglia, ospite in attesa di entrare.

È passato più di un mese da quell’incontro, ora Shibli e i suoi amici bangladesi non sono più a Lampedusa, sono stati trasferiti dalla Protezione civile a bordo di un traghetto. Sono in qualche Centro di accoglienza del nostro Paese in attesa di capire quale sarà il loro destino.
Forse riusciranno ad integrarsi, a lavorare, a far venire la famiglia, o forse no, resteranno clandestini, a vendere rose alle coppiette sedute nei ristoranti del centro, a dormire in dodici in uno scantinato, a fuggire dalla Polizia… Passo dopo passo, da una sofferenza all’altra.

E la pecora?
Già, c’era anche una pecora a bordo di una barca giunta dalla Tunisia. All’inizio si era sparsa la voce che fosse stata portata per allattare un neonato che si trovava a bordo, poi che fosse stata una specie di dono, per festeggiare l’arrivo a Lampedusa con una grigliata sulla spiaggia.
Probabilmente era solo un gesto goliardico di un giovane tunisino, già rimpatriato da Lampedusa poche settimane prima, che per prendersi gioco di quell’Europa che lo aveva lasciato sulla porta aveva con sé un simpatico ovino in omaggio.

lunedì 1 agosto 2011

Una storia

Una storia

Questa non è una intervista. A volte infatti è difficile trovare parole per raccontarsi e il racconto si costruisce sugli atteggiamenti, sugli sguardi, sulle presenze.

La storia di questa famiglia nasce con una immagine: la mamma, giovanissima, minuta, con uno sguardo impaurito, seduta sulla sedia del centro di Ascolto e i suoi tre bambini letteralmente “arrampicati” su di lei come a costituire un tutt’uno. Poche parole, l’essenziale: “Mio marito non lavora, non sappiamo come pagare l’affitto, siamo già stati sfrattati una volta”.

Il marito, una presenza forte, impetuosa, anche se non fisica, è venuto una sola volta per incarnare il capofamiglia duro, padrone possessivo nei confronti della moglie e della famiglia, diffidente, arrogante, arrabbiato con le istituzioni, con i datori di lavoro, con la povertà, con tutti, insomma venuto al Centro per mettere in guardia.

La famiglia d’origine, la suocera soprattutto, lontana, ancora in Sicilia, ma presente nelle decisioni che contano, in pratica in tutte.

Negli incontri successivi al primo le dinamiche non cambiano, sempre poche parole, sempre l’essenziale, come la vita quotidiana, non c’è spazio per altro, neanche per troppo aiuto, neanche per un’amicizia fuori o dentro il CdA: le relazioni costano. Costano fatica, investimento, spingono il cuore ad espandersi, ma il cuore è già pieno: ora non ce la fa.

Piano piano però qualcosa cambia, lo sguardo è più fermo, il sorriso più aperto. Le parole sempre poche, ma finalmente l’inadeguatezza e il timore, sempre presente, in ogni gesto, in ogni parola, in ogni sguardo si socchiudono: “Qui non mi sento ancora a casa. Sono sola. Sogno Palermo, la mia Sicilia, mia madre… l’azzurro del mio mare. Non ce la faccio a fare amicizia. Mi piacerebbe.”

La difficoltà economica c’è sempre: il marito ha trovato un lavoro con un contratto trimestrale e per poche ore, non c’è ancora spazio per chiedere aiuto alle istituzioni, viste come intrusive e pericolose, è sempre difficile pagare l’affitto, c’è un senso di colpa nell’accettare il pagamento della rata della mensa dei bambini e sono ancora poche le parole.

Eppure lei torna, torna in silenzio, solo con poche parole, quelle che ora il suo cuore sa suggerirle, perché altre non ce ne sono.

Fondo di SOlidarietà - Primo Semestre 2011

SOCIAL CARITAS

INTERVENTI DEL FONDO DI SOLIDARIETA’ NELLA DIOCESI DI SENIGALLIA

REPORT

I dati – i numeri – gli interventi – le storie

SEMESTRE
GENNAIO - GIUGNO 2011

Gli interventi

Il Numero degli interventi nel corso di questo primo semestre 2011 è stato di 467. Gli interventi si sono articolati in 30 parrocchie e attraverso il centro di ascolto diocesano.

Totale Interventi gennaio – giugno 2011 467

______________________________________________________________

Interventi Centro di Solidarietà (per inserimenti lavorativi) 218

Interventi Centro di Solidarietà 32

Interventi Casa Stella 34

Interventi nelle parrocchie (30) 183

Gli interventi si suddividono in 150 interventi per donne e 317 interventi per uomini. Dei 467 interventi svolti in questo semestre 234 sono in favore di italiani e 233 in favore di stranieri. Il numero di famiglie aiutate è stato di 141, suddiviso in 51 fam. italiane e 90 fam. straniere. Di queste 141 persone 66 sono donne e 75 uomini.

Nel corso del semestre gli interventi sono stati articolati nel seguente modo:


riepilogo

gennaio

febbraio

marzo

aprile

maggio

giugno

totale

affitto mutuo

2.680,00

1.405,00

1.509,50

600,00

-

1.900,00

8.094,50

altro

177,50

210,10

200,00

360,00

310,00

125,00

1.382,60

assicurazione

887,76

2.092,00

1.338,09

-

820,00

307,00

5.444,85

contributo spesa

607,18

390,00

250,00

740,00

1.620,00

700,00

4.307,18

lavoro

4.600,00

4.280,00

4.290,00

4.680,00

4.390,00

3.520,00

€ 25.760,00

sanitario

-

409,34

1.200,73

298,90

492,44

325,93

2.727,34

scuola

161,36

341,90

237,53

-

-

236,35

977,14

spese personali

50,00

30,00

720,00

500,00

100,00

2.050,00

3.450,00

utenze

1.985,04

1.370,57

2.855,21

2.786,20

4.010,19

5.111,79

€ 18.119,00

TOTALE

€ 11.148,84

€ 10.528,91

€ 12.601,06

9.965,10

11.742,63

€ 14.276,07

€ 70.262,61

Sia il numero degli interventi che le cifre elargite si stanno confermando intorno alla media di 80/90 interventi per mese ed oltre agli11.000 € per mese. Nella tabella sottostante potete vedere il valore economico degli interventi suddiviso tra famiglie italiane e straniere.

riepilogo

nr int

tot

Int Ita

tot

int str

tot

affitto mutuo

21

8.094,50

10

3.255,00

11

4.839,50

altro

20

1.382,60

7

335,00

13

1.047,60

assicurazione

14

5.444,85

6

2.299,76

8

3.145,09

contributo spesa

37

4.307,18

10

1.660,00

27

2.647,18

lavoro

220

€ 25.760,00

148

€ 17.090,00

72

8.670,00

sanitario

33

2.727,34

10

947,99

23

1.779,35

scuola

10

977,14

3

492,24

7

484,90

spese personali

31

3.450,00

10

1.800,00

21

1.650,00

utenze

81

€ 18.119,00

30

7.847,89

51

10.271,11

TOTALE

467

€ 70.262,61

234

€ 35.727,88

233

34.534,73

Gli interventi principali si rivolgono alle persone che usufruiscono di contributi per il reinserimento lavorativo (oltre 25.000 € ) e per il sostegno al problema casa, dato dai contributi per le utenze e per affitto/mutuo (oltre 23.000 €). Di seguito vengono gli intervento per far fronte alle spese di assicurazione (5000€) e per l’acquisto di generi di prima necessità e mantenimento della casa (oltre 7000 €).

Le parrocchie coinvolte ed il relativo numero degli interventi suddiviso per valore economico e provenienza sono:

parrocchia

nr int.

it

str

Arcevia

3

190,00

0

3

Barbara

1

89,58

0

1

Borghetto

2

444,73

2

0

Brugnetto

2

125,00

2

0

Casa Stella

34

4.162,03

7

27

Castelvecchio

1

300,00

1

0

CDS Lavoro

218

€ 25.660,00

146

72

Centro di Solidar.

32

2.121,59

8

24

Cesanella

4

670,00

0

4

Cesano

9

2.898,46

3

6

Chiaravalle

13

2.120,43

6

7

Corinaldo

2

834,00

0

2

Cristo Redentore

4

1.170,68

1

3

Duomo

6

2.240,00

1

5

Filetto

2

447,85

2

0

Le Grazie

4

730,91

0

4

Marina

14

2.362,00

1

13

Marotta

1

450,00

0

1

Marzocca

4

1.092,00

1

3

Mondolfo

7

1.152,24

1

6

Monte San Vito

2

230,00

2

0

Montemarciano

2

550,00

1

1

Monteporzio

6

1.508,24

4

2

Monterado

4

682,91

1

3

Ostra

3

300,14

3

0

Pace

21

4.751,07

12

9

Passo Ripe

12

1.869,63

0

12

Pianello

9

919,38

8

1

Porto

5

1.107,54

0

5

Portone

29

5.604,20

12

17

Roncitelli

2

885,00

2

0

San Martino

1

450,00

0

1

Vallone

8

2.143,00

7

1

TOTALE

467

€ 70.262,61

234

233

Nelle due tabelle seguenti le fasce di età ed il sesso per interventi:

Fascia età

Interventi

persone

M

F

Persone It

Persone Str

non definito

14

13

7

6

6

7

> 20 Anni

0

0

0

0

0

0

21 - 25 Anni

34

7

2

5

1

6

26 - 30 Anni

37

14

7

7

3

11

31 - 35 Anni

41

20

8

12

5

15

36 - 40 Anni

60

23

7

16

5

18

41 - 45 Anni

85

20

13

7

8

12

46 - 50 Anni

54

14

10

4

4

10

51 - 55 Anni

47

11

6

5

6

5

56 - 60 Anni

43

13

10

3

7

6

< 61 Anni

52

6

5

1

6

0

TOTALI

467

141

75

66

51

90

Le Entrate

Nella Tabella seguente le principali voci di entrate del 1° semestre 2011

Entrate

Social Caritas

€ 33.675,00

Vescovo

€ 15.000,00

Privati

8.945,00

Recupero Mobili

5.375,00

Giornata della Carità

4.679,45

Decima

2.260,39

Totale

€ 69.934,84

Per quanto riguarda la Social Caritas essa si conferma la voce principale di entrata del fondo. in questo report viene preso in considerazione il primo semestre e vogliamo ricordare che molte Parrocchie non hanno ancora versato la loro quota per il mese di giugno, in quanto in genere i versamenti avvengono nei due mesi successivi per dar tempo ai referenti di raccogliere tutte le offerte.


Social Caritas

Mese

Gennaio

6.965,00

Febbraio

6.480,00

Marzo

7.030,00

Aprile

5.495,00

Maggio

5.300,00

Giugno

2.405,00

TOTALE

€ 33.675,00


Per quanto riguarda la giornata della carità diocesana indetta per la V domenica di Quaresima non tutte le parrocchie hanno ancora versato la quota. Ormai da due anni a questa parte, dalla costituzione del Fondo di Solidarietà diocesano, tutte le entrate della giornata della Carità vengono devolute per gli interventi del Fondo stesso.

Giornata della carità diocesana

Castelleone

100,00

Casine

55,00

Suore della carità

125,00

Passo ripe

306,00

Castelvecchio

64,00

Pianello

135,00

Santuario Madonna della Rosa

890,00

Pace

500,00

Chiesa dell'Immacolata

38,70

Sant'Angelo - Filetto

140,00

Monteporzio

330,00

Suore Benedettine/gruppo Adorazione

300,00

San Cassiano

100,00

Mondolfo

281,75

Cesanella

270,00

Montemarciano

551,00

Belvedere

135,00

Roncitelli

220,00

Borghetto

156,00

TOTALE

€ 4.697,45