Di Don VITTORIO NOZZA - Direttore di Caritas Italiana
Le espressioni vuote sui loro volti smunti dalla fame raccontano di un viaggio immensamente faticoso, a piedi, per centinaia di chilometri, in cerca di cibo e di acqua. Tutti camminano su una terra di nessuno, verso quella che sperano sarà la loro salvezza. Molti non ce la faranno ad allontanarsi dalla terra della siccità e della morte. Volti dentro i colori sgargianti delle vesti delle donne, e bambini rannicchiati nelle fasce sulle loro spalle. Volti di anziani che avanzano lentamente, con l’ausilio di un bastone di legno o di una canna. Volti di ragazzini più grandi, che aiutano i fratelli a mantenere il passo del resto della famiglia.
Sono rifugiati somali in fuga dalla siccità e dalla carestia che stanno flagellando il loro paese. E le regioni confinanti. Ogni giorno migliaia di loro, abbastanza fortunati da sopravvivere al viaggio, arrivano al campo profughi di Dadaab. Arrivano esausti, affamati, spesso dopo aver perso alcuni dei loro cari lungo la strada. Tra i rifugiati, sono i bambini che pagano il prezzo più alto della siccità. Più di 800 mila minori rischiano di morire per fame, se non riceveranno assistenza immediata. Ma in totale, sono due milioni e mezzo i bambini affetti da malnutrizione acuta in Etiopia, Somalia e Kenya.
Questa è la peggiore crisi alimentare in Africa da vent’anni, e la peggiore in corso nel mondo attualmente.
Per ciascun Aden, Ahned o Mohammed che sopravvive al viaggio e alla fame, ci sono migliaia di altri bambini la cui vita rischia di spegnersi lungo la strada per Dadaab. Calamità naturale? Assolutamente no. La carestia che flagella il Corno d’Africa è il prezzo del fallimento di uno stato, quello somalo. Che in vent’anni non è riuscito ad imporre un’autorità effettiva sul territorio. Ma è anche il prezzo del disinteresse della comunità internazionale. A parte interventi sporadici, si è rimasti a guardare l’agonia della Somalia, lacerata da una guerra senza fine.
Vietato essere indifferenti
Troppo tardi, troppo poco? Questo sembra essere il timore degli operatori umanitari. Questa è l’accusa latente, il filo che lega le tante dichiarazioni intorno alla devastante carestia che infierisce sul Corno
d’Africa e dal sud somalo e a raggiera investe Etiopia e Kenya, mietendo un numero ancora sconosciuto
di vittime.
Il mondo non può stare a guardare. Il conto totale presentato dalle Nazioni Unite è molto salato: 1,6 miliardi di dollari (era la stima di luglio) per salvare la vita di almeno 12 milioni di persone a rischio. Si assiste a
rinvii e a scarse disponibilità, per una crisi che era stata ampiamente annunciata dalle organizzazioni
umanitarie e che per mesi è rimasta colpevolmente dimenticata Il disastro, insomma, è recente, ma le sue radici sono lontane. E lo si è visto inesorabilmente arrivare. Ma non si è fatto assolutamente nulla. Perché? È una questione di volontà politica. Gli aiuti – quelli che già ci sono, quelli che si spera giungeranno in quantità massiccia – affluiranno verso Mogadiscio, la capitale somala, sulla quale il Programma alimentare mondiale dell’Onu ha provato ad allestire un ponte aereo, verso i campi profughi già esistenti oltreconfine, nel sud etiopico, a Dollo Ado, e nell’estremo est keniano, appunto a Dadaab. Ma in mezzo a questo ampio territorio c’è un immenso buco nero, il sud somalo, l’epicentro della carestia. È soprattutto lì che la gente è morta e sta morendo. È lì che signoreggiano gli Shabaab, le milizie islamiche collegate ad Al Qaeda. È lì che si fatica. Ed è lì che è impedito intervenire.
«È vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e degli assetati»: così papa Benedetto XVI all’Angelus di domenica 31 luglio. Certamente la crisi dei mercati internazionali ha creato e crea non pochi
problemi ai paesi donatori, molti dei quali stanno letteralmente cancellando la spesa sociale. Viviamo in un
mondo nel quale la globalizzazione consiste essenzialmente nello scaricare su altri gli effetti della propria ingordigia, poco importa che si tratti di sfruttare le materie prime nei paesi africani o speculare finanziariamente in Borsa, riducendo al lastrico risparmiatori e imprese medio-piccole che rappresentano il volano della cosiddetta “economia reale”.
I numeri non dicono tutto. Si è all’inizio di un dramma che potrebbe durare molti mesi. È vietato essere indifferenti. Le tragedie odierne dei profughi, in cerca di sopravvivenza, rappresentano per le nostre coscienze una forte provocazione. Si sta parlando di popolazioni che per più di 15 anni hanno ricevuto un’assistenza molto limitata e circoscritta ai bisogni di base, senza un sostegno duraturo verso l’uscita dal rischio. Va detto che la siccità è altamente prevedibile e gestibile. Le condizioni climatiche si sono però sommate a un peggioramento, anno dopo anno, della società somala. In mancanza di un governo vero, nessuna istituzione locale si è presa cura della popolazione, fortemente indebolita da povertà, instabilità, insicurezza.
La colletta ecclesiale del 18 settembre
Benedetto XVI spesso sottolinea che «la povertà e la fame sono il risultato di atteggiamenti egoistici che, partendo dal cuore dell’uomo, si manifestano nel suo agire sociale». Un’affermazione forte, che obbliga tutti noi alla responsabilità verso la povertà che dilaga. Quanti poveri nelle nostre periferie! Sono persone provate dalla sofferenza, dalla miseria e dall’abbandono. Stanno sotto gli occhi, questi disperati, vivono in scatoloni, tende, sotto i cavalcavia, in edifici diroccati. Sono affamati, ammalati, sporchi. E non mancano bambini con le guance rigate da paura e sofferenza.
Disturba, l’indifferenza che ignora i poveri e li allontana sempre più dagli occhi del cuore. Se manca questa
sensibilità, se il “cuore” si è impietrito, aspettiamoci il rigetto del povero. Occorre un piano di “recupero di umanità”. Educhiamo piccoli e grandi a stare con i volti e le storie di povertà. Recuperiamo questa umanità, se desideriamo una terra nuova. Recuperiamoci umanamente, per camminare con responsabilità sulla strada che da Gerusalemme porta, da “prossimi”, a Gerico.
Diversamente, è la sconfitta umana più grande e pericolosa che si possa verificare nella nostra piccola storia.
Ed è anche la grande sconfitta del contesto sociale, nazionale e internazionale, che rischia di tamponare solo
temporaneamente la fame, la povertà del mondo attraverso proclami, decreti, interventi straordinari. Mettiamoci invece alla “scuola dei volti” dei nostri territori, per non disattendere la responsabilità verso i volti poveri e impoveriti del mondo.
Domenica 18 settembre le chiese in Italia, e gli uomini e le donne di buona volontà, sono chiamate a una
grande colletta, “Fame di pane e di futuro”. Spezziamo il nostro pane con gli impoveriti del Corno d’Africa. Ci sarà più facile anche accorgerci dei tanti impoveriti che ci attorniano, nelle nostre città.